domenica 22 maggio 2016

La malattia di Osgood Schlatter


Durante l’accrescimento l’osso dell’infante ha una conformazione peculiare. In primis offre una resistenza maggiore dovuta ad una ossificazione non totale e quindi ad una densità ossea “bassa”, motivo per il quale le fratture “a legno verde” sono peculiari dell’età preadolescenziale. Inoltre l’osso del bambino è come un mosaico di pezzi non ancora saldati tra di loro e si può osservare come a ridosso del corpo centrale dell’osso si notano i cosiddetti “nuclei di ossificazione” che andranno poi a formare le parti articolari dell’osso piuttosto che le apofisi sulle quali si inseriscono tendini e legamenti. Proprio di apofisi si parla in questo quarto focus.

Il termine apofisi deriva dal greco Apophysis che letteralmente significa “prodotto”. Propriamente il termine indica una sostanza prodotta per estensione e moltiplicazione di cellule. Essa è dunque una protuberanza ossea e quella in questione oggi si trova immediatamente sotto al ginocchio, sulla parte prossimale della tibia, sede di inserzione del grosso e potente tendine rotuleo, chiamata Tuberosità tibiale anteriore.

Durante l’accrescimento la tuberosità è costituita da una placca cartilaginea e si accresce prevalentemente per aumento di volume della cartilagine. Con la comparsa del nucleo osseo la tuberosità cresce grazie alla fibrocartilagine del tendine rotuleo che va in contro ad ossificazione.

In questa patologia questa ossificazione è alterata da fenomeni degenerativi. Questi disturbi clinici sono provocati fondamentalmente da micro lacerazioni causate dall’abnorme sollecitazione meccanica che il tendine rotuleo (tendine del terzo muscolo più potente del corpo umano, il quadricipite), esercita sulla tuberosità. Per questo motivo la patologia è definita anche “apofisite di trazione”. Per farvi capire meglio è come se ci sedessimo su un muro di mattoni e cemento fresco, il nostro peso altererà la forma e qualche mattone non attecchirà sul cemento facendo risultare il muro instabile.

Il morbo si manifesta in età adolescenziale in ragazzi dediti all’attività sportiva. Il sintomo principale è il dolore a livello della tuberosità tibiale, esacerbato con la contrazione attiva del muscolo quadricipite e dalla digitopressione. A volte si può osservare un gonfiore localizzato sull’apofisi. La diagnosi deve essere confermata dall’esame radiografico che può mostrare una irregolarità di ossificazione.

Il trattamento è conservativo e consiste nel ridurre le attività del giovane paziente fino alla remissione della sintomatologia dolorosa. Alla fine della crescita può residuare una sporgenza della tuberosità tibiale anteriore causata da una ossificazione della parte inserzionale del tendine rotuleo. In alcuni questa provoca disturbi e deve essere rimossa chirurgicamente

Trattamento fisioterapico

Il trattamento fisioterapico trova spazio dopo il periodo di riposo che ha fatto regredire la sintomatologia. Il quesito riabilitativo si occuperà del recupero muscolare dopo la protratta inattività. Il rinforzo deve essere graduale per accompagnare quella che è la naturale crescita ossea e stimolare quelle trazioni tendinee necessaria per suddetta crescita. Lo sport non è bandito in questa fase, si devono però prediligere sport a basso impatto e basso carico, come il nuoto (eccezion fatta per lo stile a rana) e il ciclismo, su percorsi pianeggianti e poco impegnativi. La patologia è benigna, non è legata a nessun fattore genetico e regredisce nel giro di due anni







le nozioni presenti in questo articolo sono state estrapolate da:
1) F.Postacchini, E.Ippolito, A.Ferretti-"Ortopedia e traumatologia"
2) J.C.Thompson - "Atlante di anatomia ortopedica di Netter"

lunedì 2 maggio 2016

Lesione legamento crociato anteriore: trattamento chirurgico e riabilitazione

Lesione del legamento crociato: trattamento chirurgico e riabilitazione

In questo terzo focus voglio parlarvi di uno dei traumi ortopedici più frequenti e uno di quelli di cui si sente più parlare data la sua alta incidenza in sport come il calcio ed il basket: la rottura del legamento crociato anteriore.
Anatomicamente i legamenti sono delle strutture statiche e scarsamente elastiche che congiungono due estremità ossee. Da non confondere coi tendini che, come spiegavo nel focus precedente, rappresentano la parte terminale del muscolo che si inserisce su un osso, sono discretamente elastici e stabilizzano indirettamente un’articolazione. I legamenti servono dunque a stabilizzare l’articolarità tra due ossa, limitandone il movimento a quello fisiologico e biomeccanicamente adeguato.

Il legamento crociato nella fattispecie si trova all’interno dell’articolazione del ginocchio. Il suo acronimo esatto è LCAE ovvero legamento crociato anteriore esterno. Crociato perche si incrocia con il legamento crociato posteriore, anteriore perché è più anteriorizzato rispetto al posteriore ed esterno perché parte dalla porzione anteriore dell’interlinea del piatto tibiale fino a raggiungere la faccia mediale nella porzione posteriore del condilo femorale esterno. Questo robusto legamento stabilizza il ginocchio evitando che la tibia vada eccessivamente in avanti rispetto al femore. Inoltre grazie alla loro struttura fanno si che le due ossa stiano sempre a contatto durante il movimento del ginocchio, che è un movimento a cerniera, proprio come quelle di porte e finestre.




Quando si ha una lesione del LCAE?
La lesione del crociato si ha quando si incappa in un trauma che riesce a produrre una forza di trazione sul legamento maggiore della resistenza del legamento stesso. Un LCAE resiste fino a 2500 N. Il trauma più classico è di tipo distorsivo. Quando si sente gergalmente “il piede si è piantato a terra e il ginocchio si è girato” è molto probabile che sia avvenuta una lesione del crociato.
Con questa modalità i casi sono due: nel primo il piede resta piantato guardando verso l’esterno ed il ginocchio va verso l’interno. Questo è il trauma più frequente ed in questo caso la lesione del crociato è associata alla lesione del legamento collaterale mediale. Nel secondo, il piede resta piantato guardando verso l’interno ed il ginocchio va verso l’esterno. In questo caso la prima struttura interessata è il legamento crociato anteriore. Difficilmente un trauma che abbia determinato la lesione del crociato non interessa atri legamenti o le strutture meniscali, ma il legamento crociato resta la struttura anatomica più importante dal punto di vista chirurgico e riabilitativo. La lesione del crociato può avvenire anche per trauma distorsivo da iperflessione del ginocchio, quando ci si accovaccia con eccessiva forza e velocità.
Il soggetto che subisce un trauma che determini la rottura del crociato sentirà nel ginocchio un “crac articolare” e l’immediato bisogno di eliminare il carico dall’arto infortunato. Successivamente potrebbe esserci gonfiore, ecchimosi cutanea (livido, nei casi gravi) ed atteggiamento in flessione del ginocchio come per protezione.
La rottura totale del crociato è diagnosticabile direttamente “in campo” con alcuni test specifici. Le rotture parziali sono diagnosticabili grazie all’imaging, risonanza magnetica in particolare.

Le lesioni del LCAE sono così classificabili:
-I grado: semplice distensione di alcuni fasci del legamento
-II grado: lacerazione legamentosa parziale
-III grado: lacerazione legamentosa totale o distacco del legamento dall’osso

Trattamento
Tenendo conto del fatto che una lesione completa del LCA non ripara spontaneamente la via d’elezione è quella chirurgica. La necessità dell’intervento varia a seconda di alcuni fattori:
-dolore
-instabilità articolare marcata
-età del paziente
-stile di vita

L’intervento chirurgico non è quindi sempre necessario. La rottura del LCAE non è invalidante se il soggetto ha una vita scarsamente attiva, se non pratica sport regolarmente, se non riscontra una instabilità notevole e se non ha dolore. Si tende ad operare quando l’instabilità secondaria del ginocchio diventa invalidante o quando il paziente sia giovane o attivo dal punto di vista sportivo. La lesione del crociato non trattata può portare a problemi secondari quali lesioni meniscali ed artrosi precoce del ginocchio ma in molti casi l’apparato muscolare di questa articolazione riesce a sopperire alla mancanza del legamento facendo risultare il ginocchio abbastanza stabile nelle normali attività di vita quotidiana

L’intervento chirurgico non consiste in una riparazione tramite sutura, anche perché i legamenti sono strutture scarsamente vascolarizzate e quindi avrebbero difficoltà a riparare. Si tratta bensì di una sostituzione. 

Le tecniche utilizzate sono sostanzialmente 3:

-sostituzione del legamento con i tendini dei muscoli semitendinoso e gracile autologo
-sostituzione del legamento con il tendine rotuleo autologo
-sostituzione del legamento con allograft, trapianto da cadavere

La tecnica operatoria è molto complessa ed avviene in artroscopia. Senza entrare in lunghi tecnicismi possiamo così sintetizzare l’intervento.

-          In artroscopia vengono eliminati i lembi del legamento lesionato
-          Nel caso in cui si effettui una sostituzione con i tendini, gli stessi vengono prelevati e preparati
-          Si effettua una canalizzazione ossea che attraversa obliquamente l’articolazione passando da femore a tibia ripercorrendo il l’orientamento del legamento
-          Si inseriscono i tendini di cui si stabilizzano i capi con delle viti

Ciò che avviene biologicamente nei mesi successivi è una vera e propria trasformazione. Il tessuto tendineo che chirurgicamente ha sostituito il legamento va prima in necrosi avascolare e poi viene rivascolarizzato trasformandosi in tessuto legamentoso. Questo processo ha bisogno di 9 mesi ed avviene grazie al fatto che l’organismo riconosce il tessuto come suo ed in quella localizzazione gli conferisce un specifica diversa, non più tendine ma legamento. Inoltre il neo legamento viene perfettamente inglobato nell’osso. Affinché questo processo avvenga è necessario però un input e questo viene dato dalla fisioterapia.

Riabilitazione
Lo scopo macroscopico della riabilitazione è quello di ridare articolarità, equilibrio e forza al ginocchio. Microscopicamente tutti gli input riabilitativi vanno a stimolare la nuova strutture ed a direzionare la sua linea di riparazione. Se la riabilitazione non venisse effettuata o effettuata in modo non idoneo il neo legamento resterebbe lasso e non darebbe stabilità al ginocchio. La progressione riabilitativa, se si parla di standard può essere così strutturata:



1) fase pre-operatoria:
la riabilitazione inizia prima dell’intervento. Il paziente deve presentarsi al chirurgo con una adeguata articolarità del ginocchio ed una buona massa muscolare. La mancanza di questi indici potrebbe essere preclusiva per la buona riuscita della riabilitazione

2) fase post-operatoria 0-2 settimane:
il paziente vene dimesso con un tutore bloccato in estensione durante il cammino e la notte. Il carico è concesso con 2 stampelle, di cui una eliminabile dopo una settimana se tollerato il carico. Il primo obiettivo è quello di ridurre l’edema, il gonfiore ed il dolore, come dopo ogni intervento chirurgico.
In questa fase è importantissima la tempestiva mobilizzazione con l’obiettivo di riguadagnare la completa estensione, necessaria per la deambulazione. La flessione da raggiungere entro le 2 settimane è di 90°. Una buona forza del quadricipite ed una buona articolarità ci proiettano alla fase 3

3) fase 3: 2-4 settimane:
ripristino di una buona deambulazione ed eliminazione della seconda stampella. Il tutore resta nel caso in cui il legamento sia stato sostituito con il tendine rotuleo. Viene invece rimosso se si tratta di gracile e semitendinoso. In questa fase si raggiunge la completa articolarità e si incrementano gli esercizi di rinforzo, che restano sempre cauti
4) fase 4: 6 settimane-4 mesi:
si passa alla quarta fase post operatoria se la deambulazione è normale, l’articolarità è totale e la fiducia nel ginocchio da parte del paziente gli permette di iniziare esercizi di equilibrio e stabilità, con carichi e difficoltà crescenti

5) ritorno all’attività sportiva
Al quinto mese si inizia il graduale ritorno all’attività sportiva


FT Michele Laino


Le nozioni presenti in questo articolo sono state estrapolate da:
1) A.Mancini, C.Morlacchi “CLINICA ORTOPEDICA”
2) I.A.Kapandji “FISIOLOGIA ARTICOLARE” vol.2
3) F. Postacchini, E.Ippolito, A.Ferretti “ORTOPEDIA E TRAUMATOLOGIA”
4) B.Young, J.W. Heath “ISTOLOGIA E ANATOMIA MICROSCOPICA”

5) Lezione universitaria di Medicina della riabilitazione, A.A. 2011-12, corso di Fisioterapia II Facoltà di medicina e psicologia, A.O. Sant’Andrea, “La Sapienza” Roma

giovedì 21 aprile 2016

La sindrome del tunnel carpale

La sindrome del tunnel carpale
Per questo secondo focus prendo spunto da un quesito postomi qualche settimana fa sulla mia pagina facebook riguardante la “sindrome del tunnel carpale”. L’interrogativo riguardava la necessità o meno della fisioterapia post-intervento ma è bene partire dall’inizio e fare luce sulla patologia in se.

Anatomicamente il tunnel carpale si trova sul lato palmare della mano, appena dopo l’articolazione del polso. È un canale osseo e legamentoso che ha come base quattro ossa brevi (trapezio, scafoide, uncinato e pisiforme) e come tetto il robusto “legamento anulare anteriore del carpo o legamento trasverso del carpo”. All’interno di questo canale passano nello specifico i tendini flessori superficiali e profondi delle dita ed il flessore proprio del pollice, per intenderci, le corde tendinee che ci permettono di chiudere il pugno. Parallelamente a questi tendini, nel canale del carpo, scorre il nervo mediano.


Ritengo sia utile qui fare una piccola digressione e spiegare la differenza tra tendine e nervo. Parto sempre dal presupposto di avere a che fare con persone “non addette ai lavori” e che quindi sia utile chiarire alcuni dubbi. Nella mia pratica clinica molti pazienti nella descrizione del sintomo esordiscono con: “mi tira qui, proprio dove c’è il nervo”. Anche qui la fa da padrona una certa confusione di termini. Il nervo è una struttura anatomica che fa parte del sistema nervoso periferico. Diciamo che è il filo che parte dalla nostra centralina elettrica rappresentata da cervello e midollo spinale. Serve a condurre l’input elettrico che viene poi trasmesso ai muscoli affinché si contraggano o a condurre verso il sistema nervoso centrale degli stimoli sensitivi che vengono dalla periferia. Il tendine è la parte finale di un muscolo che si inserisce su un osso. La confusione nasce dal termine “nerbo”. Il nerbo è una frusta formata dall’intreccio di tendini bovini e con l’aggettivo “nerboruto” si indica una persona i cui muscoli e tendini sono particolarmente evidenti. Nerbo e nervo sono due parole molto simili e nell’italianizzazione hanno raggiunto un significato unico ma errato.

 Digressione fatta torniamo alla sindrome. I nervi sono strutture estremamente delicate che se schiacciate possono portare a sintomatologia dolorosa, parestesia (formicolio) e deficit importanti del muscolo come perdita di funsione e di massa. Questo è ciò che succede nella sindrome del tunnel carpale. Il legamento anulare anteriore del carpo si inspessisce per una causa non nota (idiopatica) a questo si associa un ispessimento dei tendini sopracitati per cause reumatologiche o da eccessiva attività. Il nervo a questo punto si trova schiacciato sotto al legamento dando come sintomatologia formicolio sulla porzione palmare di 1°,2°,3° e porzione interna del 4° dito, dolore che si acuisce nelle ore notturne. Inoltre si ha un deficit di forza nell’opposizione del pollice (pollice che non riesce a toccare la punta dell’anulare e del mignolo).

La sindrome del tunnel carpale è la neuropatia periferica più diffusa interessando l’1% della popolazione generale. Colpisce maggiormente le donne in età premenopausale.
La diagnosi è clinica con alcuni test che cito per dover di cronaca e che magari sono stati sottoposti a chi di voi ha avuto questo tipo di problema:
-manovra di Tinel









-manovra di Phalen












La diagnosi strumentale viene fatta con l’elettromiografia motoria e sensitiva (EMG)
 
Trattamento
È conservativo, quindi senza intervento chirurgico, nei casi in cui la compressione sia modesta e senza eccessiva sintomatologia. Esso consiste nell’uso di un tutore che eviti la flessione e l’estensione del polso per un tempo determinato affinché le strutture possano sgonfiarsi. Quando prevale il dolore si può intervenire con un’infiltrazione di cortisone a lento assorbimento.

 Fisioterapia nel trattamento conservativo
La fisioterapia da un grande aiuto nel trattamento conservativo della patologia. L’obiettivo è il riassorbimento dell’edema conseguente all’infiammazione tendine ed il rilassamento del canale del carpo con conseguente fluidificazione dello scorrimento tendineo. La terapia fisica è rappresentata da laser, ultrasuoni, tecar ma trova un ruolo fondamentale  la terapia manuale. Manualmente il terapista rilassa il carpo e il citato legamento, attua uno scorrimento tendineo senza contrazione muscolare e quindi senza ingrossamento dei tendini, riattiva la circolazione che smuove la stasi venosa causa del dolore. Nella pratica riabilitativa trova posto anche l’applicazione di taping neuromuscolare

Trattamento chirurgico
Consiste nel sezionare longitudinalmente il legamento trasverso del carpo e resecarne parzialmente i lembi laterali per liberare il nervo dalla compressione nel canale.








Fisioterapia post trattamento chirurgico

-Per la prima settimana la riabilitazione consiste nella mobilizzazione attiva e passiva delle dita e in cauti movimenti attivi del polso.

-Dopo una settimana si toglie la medicazione ed il paziente inizia ad utilizzare la mano nelle attività di vita quotidiana.

-Dal 14° giorno si tolgono i punti di sutura e ,a cicatrice rimarginata, si eseguono esercizi attivi a passivi del polso. Un lavoro importante va focalizzato sulla cicatrice in quanto i neotessuti cicatriziali potrebbero formare aderenze coi tessuti sottostanti e nei casi più gravi limitare nettamente il movimento della mano. In questo caso è fondamentale la terapia manuale che può essere coadiuvata dall’utilizzo da taping neuromuscolare

-dalle 2 alle 4 settimane il paziente viene gradualmente portato ad attività più rigorose volte al rinforzo muscolare di un sistema che è stato “a riposo” per troppo tempo.
La riabilitazione termina quando non sono più presenti i segni dell’infiammazione, quando non è più presente il dolore e quando l’attività della mano ha raggiunto livelli accettabili ed il suo miglioramento, secondo valutazione del terapista, dipende esclusivamente dal paziente

Per rispondere al quesito iniziale, ricalcando anche la risposta data sul social network la fisioterapia post-operatoria è necessaria. Non ve n’è bisogno solo nei rarissimi casi in cui l’intervento non porta a conseguenze (infiammazione, ipomobilità, dolore) ma la statistica in questo caso è infinitamente piccola se non nulla

Grazie per la lettura, arrivederci al prossimo focus

Michele Laino


Le nozioni presenti in questo articolo sono state estrapolate da:
-F.Postacchini, E.Ippolito, A.Ferretti “Ortopedia e Traumatologia”
-I.A. Kapandji “Fisiologia articolare-vol.1-arto superiore”
-S.Brent Brotzman, Kevin E. Wilk “La riabilitazione in ortopedia”
-Dizionario Devoto Oli della lingua Italiana

-esperienza lavorativa ambulatorio riabilitazione mano, servizio di Fisioterapia Complesso Integrato Columbus, 2013-2016

mercoledì 13 aprile 2016

Artrite ed artrosi: confusione di due termini

Artrosi ed artrite reumatoide

Voglio iniziare questi appuntamenti “focus” parlando di due patologie estremamente diffuse e, molto spesso, concettualmente confuse. La maggior parte dei miei trattamenti hanno riguardato e riguardano queste due malattie o le loro conseguenze e nella mia pratica clinica mi sono spesso trovato di fronte a pazienti che non conoscevano a pieno le differenze tra l’artrosi e l’artrite e che frequentemente pensavano che i due termini fossero sinonimi.
Il dato curioso che ho riscontrato, trattandosi di pazienti affetti dall’una o dall’altra patologia,  è che i soggetti che non conoscevano le differenze di base tra le due malattie, erano sempre quelli affetti da artrosi. La spiegazione di questo dato si deve ricercare prima di tutto nell’accezione popolare dei due termini, i quali sono spesso confusi. L’altra causa è che i soggetti affetti da artrite reumatoide, la quale è una patologia completamente differente, seguono un iter diagnostico e curativo molto più articolato e controllato e quindi sanno perfettamente che la loro patologia non è l’artrosi.
Alla luce di ciò ho pensato dunque che fosse positivo iniziare con questo argomento.

L’artrosi o più correttamente osteoartrosi, è una patologia articolare degenerativa, caratterizzata dalla degenerazione della cartilagine che provoca il cedimento strutturale delle articolazioni. Nella grande maggioranza dei casi, l’osteoartrosi, compare insidiosamente senza una causa iniziale, come un fenomeno legato all’invecchiamento (artrosi primaria). Generalmente in questi casi la malattia colpisce poche articolazioni. Nel 5% dei casi l’osteoartrosi compare in soggetti giovani che presentano condizioni predisponenti come traumi articolari, diabete, forte obesità. In questo caso si parla di osteoartrosi secondaria. Nelle donne sono più colpite le articolazioni di ginocchia e mani; negli uomini le articolazioni delle anche.


Tutto nasce da una degenerazione della cartilagine che ha un ruolo essenziale sia nell’ammortizzazione sia nella frizione delle articolazioni.  Le piccole lesioni si trasformano poi in grosse falle che raggiungono l’osso sottostante. Lo stile di vita, l’ambiente e gli stress biomeccanici articolari favoriscono l’insorgenza dell’artrosi. Il 40% dei soggetti oltre i 70 anni ne è affetto.
La patologia in genere non da sintomi fino ai 50 anni.
La sintomatologia caratteristica è rappresentata da:

-                    -          dolore profondo che peggiora con il movimento articolare

        -      rigidità mattutina
        
         -   limitazioni del movimento

L’artrosi può essere anche causa di nevralgie compressive (p.es: sciatica).
La diagnosi è clinica o strumentale tramite Radiografia

Il trattamento
Dall’artrosi non si guarisce ma si possono alleviare i sintomi e rallentare il processo degenerativo
Può essere:

    -     farmacologico con l’induzione di antidolorifici, miorilassanti e antinfiammatori
 
  -  fisioterapico con termoterapia tramite applicazione di calore, necessaria mobilizzazione e decoaptazione articolare, tecniche di rilassamento muscolare e stretching

  -       chirugico con artroscopia depurativa o protesizzazione  



Quando parliamo di artrite reumatoide (AR) non cambiamo solo patologia ma anche ambito. Si passa, infatti, nella clinica reumatologica essendo questa una patologia infiammatoria cronica autoimmune.
Benché questa affezione colpisca principalmente le articolazioni del nostro corpo, possiamo trovarne manifestazione anche in tessuti diversi e in organi come il cuore, la pelle ed i polmoni.
Dal punto di vista articolare, l’AR porta alla distruzione della cartilagine e all’anchilosi (fusione di due ossa) . L’incidenza nella donna è 3 volte superiore che nell’uomo ed ha la sua manifestazione tra i 20 ed i 40 anni.

Essendo una patologia autoimmune e cioè una condizione in cui il nostro sistema immunitario attacca il nostro stesso corpo, la predisposizione genetica contribuisce allo sviluppo della patologia molto più che nell’artrosi. I fattori ambientali come infezioni e fumo possono favorire l’insorgenza della patologia latente.
Nella metà dei pazienti l’AR inizia in modo insidioso con:

       -       malessere
      
       -       debolezza muscolare  

        -      dolore muscolo-scheletrico generalizzato
 Dopo qualche mese il coinvolgimento articolare diventa evidente, prima alle mani, provocando anche delle notevole deformazioni, poi alle articolazioni più grandi, risparmiando rachide ed anche. Vengono coinvolti, a livello articolare anche muscoli e tendini.



La diagnosi è clinica e supportata da Radiografia, analisi del liquido sinoviale (liquido che si trova all’interno delle articolazioni), analisi di laboratorio con ricerca di fattore reumatoide e di anticorpi-CCP

Trattamento
È finalizzato ad alleviare il dolore e l’infiammazione, nonché a rallentare la distruzione articolare.

               -     farmacologico prevede l’uso di corticosteroidi (cortisone), farmaci sintetici o biologici come il metotrexato

               -    fiosterapico con termoterapia mediante l’applicazione di ghiaccio, mobilizzazione articolare, rilassamento muscolare, tecniche per riassorbimento edema.

              -      chirugico con sostituzione protesica



In definitiva possiamo affermare che le differenze sostanziali tra le due patologie sono:

A) l’artrosi è di ambito ortopedico su base meccanica; l’artrite e di ambito reumatologico su base autoimmune

B) l’artrosi ha una base genetica eterogenea e non chiara; l’artrite ha una preponderante base genetica (50%)

C) l’artrosi primaria si manifesta in soggetti ultracinquantenni, quella secondaria in soggetti più giovani ma come conseguenza di altre patologie; l’artrite reumatoide si manifesta tra i 20 ed i 40 anni

D) l’artrosi non porta all’anchilosi articolare (fusione ossea); l’artrite porta all’anchilosi

E) l’artrosi colpisce esclusivamente le articolazioni; l’artrite colpisce differenti tessuti, tra cui  il cuore

F) l’artrosi può colpire tutte le articolazioni; l’artrite generalmente risparmia il rachide e le anche

G) l’artrosi si tratta con il caldo; l’artrite con il freddo

H) la terapia farmacologica per l’artrosi è composta da antidolorifici, antinfiammatori e miorilassanti e marginalmente da corticosteroidi; per l’artrite i corticosteroidi sono preponderanti essendo i più efficaci farmaci antiinfiammatori ma la terapia è composta anche da farmaci sintetici e biologici

I) l’artrite reumatoide risulta essere più invalidante dell’artrosi data la sintomatologia, la gestione e la terapia


Grazie per la lettura. Arrivederci al prossimo focus!

 Michele Laino


Le nozioni presenti in questo articolo sono state estrapolate da:
1) Robbins e Cotran “Le basi patologiche delle malattie – malattie degli organi e degli apparati – Vol.2”; V.Kumar, A.K. Abbas, J.C. Aster
2) “Clinica Ortopedica – Manuale-Atlante” A.Mancini, C.Morlacchi
3) Lezione universitaria di Reumatologia; corso di Fisioterapia, II Facoltà di Medicina e Psicologia, Università “La Sapienza”, Roma, Anno accademico 2010-2011